La guerra delle piazze

Il dibattito democratico sulla “movida” nelle città universitarie segue copioni simili da anni. Si struttura cioè come un dibattito tra residenti e commercianti, con in mezzo la polizia a indirizzare le folle notturne secondo delle (mutevoli) linee di indirizzo cittadine. L’indicazione che sembra arrivare non è (solo) quella di massimizzare il profitto, ma di rendere la città del tutto funzionale: a ogni segmento di popolazione uno scopo, e una dialettica tra le parti che mantenga questa funzionalità dei vari soggetti.

A Bologna il teatrino passa per i comitati dei residenti che chiedono silenzio e ordine, e si occupano in prima persona di rimuovere le scritte sui muri e altri segni della ingombrante eccedenza studentesca. Allo stesso tempo, i commercianti colgono l’occasione data dalle norme pandemiche per estendere i loro dehors su sempre maggiori porzioni di suolo. Il messaggio è che le bevute da seduti, sono più “decenti” e portano vantaggio ai ristoratori, dunque vengono accettate dai comitati di residenti all’interno di uno schema stringente: coi commercianti si tratta, ci si azzuffa, ci si confronta negli organi democratici; l’importante è costruire una Politica da cui viene esclusa la fondamentale componente studentesca (da intendere qui nel senso di fondamenta, basilare per la costruzione della città-universitaria bolognese). Perché studenti e studentesse in quest’equazione non compaiono se non come variabile monetaria, da cui i vari attori cittadini (aggiungiamoci anche l’Università) estraggono cospicui introiti.In questa strutturazione non c’è da rintracciare chissà quale disegno politico, ma una normale sovrapposizione di interessi che va più in profondità e si sviluppa con maggiori ramificazioni di quelle raccontate in questo testo. Per quella porzione di fatti che ci interessano qui, è sufficiente osservare la solerzia con cui Otello Ciavatti (comitato residenti di Piazza Verdi) si spende prima e dopo ogni weekend. La velocità con cui il suo comitato cancella le scritte sui muri è eccezionale, in particolare quando quelle scritte denunciano l’enorme spesa per la ristrutturazione di una piazza. Ma lo stesso Ciavatti lo ritroviamo a farsi foto seduto al dehors del Piccolo e Sublime con il proprietario del noto bar di piazza Verdi, lo stesso che vanta grandi amicizie con la giunta bolognese, lo stesso – ci permettiamo di ricordare – che è stato chiamato in causa da una serie di accuse di molestie sessuali apparse sui social network, in particolare nell’ultimo anno.

Qui il punto non è soltanto quello di massimizzare i profitti (certo quello è un aspetto centrale, non ce lo dimentichiamo), ma anche di rendere continuamente funzionale la città, di inquadrare chi la attraversa in precisi ruoli e possibilità di prendere parola. Studenti e studentesse questa voce non ce l’hanno e non possono avercela, perché non esiste un regime funzionale del discorso che possa render conto di ciò che è desiderabile della vita studentesca nonostante le tasse, il caro affitti, i padroni di casa stronzi, i lavoretti a due soldi, le pressioni familiari per finire in tempo e dulcis in fundo (negli ultimi anni) la spada di Damocle di una pandemia mai veramente terminata. Se comunque la vita studentesca è attraente, è proprio perché non si è riusciti a soffocare del tutto la sua ridondanza, la molteplicità di situazioni in cui il ruolo soggettivo non è predeterminato, ma in divenire. La dialettica politica del governo della città nega alla radice questa caratteristica della vita bolognese: si può prendere parola solo a partire da uno scopo, da una funzione nell’ordine urbano, da un valore economico o sociale. Ma una città (e in particolar modo una città studentesca) non si definisce a partire dai suoi ruoli, non esistono piazze solo per far mercato o per dare spazio ai clienti dei bar, ma semmai c’è una piazza di fronte a ogni grande edificio, perché per secoli chi ha attraversato quegli edifici ha amato ritrovarsi senza scopo a breve distanza, per discutere, litigare, cospirare, bere e corteggiarsi. Ciò che contraddistingue una città passa precisamente per questi spazi “inutili” e ineliminabili, e per i tempi “inutili” (cioè non produttivi) con cui questi spazi vengono riempiti. Bologna, in particolare, per le sue piazze, i suoi muri poetizzati, la sua (spesso riottosa) anima studentesca. La stessa morfologia della città richiama questa forza-senza-voce degli studenti: gli iconici portici sono stati la risposta di residenti attenti alle proprie tasche (che novità!), che visto il grande flusso di allievi per la neonata università, sin dall’XI secolo hanno cominciato a proiettarsi sopra le strade per aumentare la capienza delle abitazioni (più studenti uguale più introiti, anche se il Rettore Ubertini nella sua cerimonia d’addio ha provato a sostenere che si trattasse solo di accogliere più studenti, in maniera disinteressata).

La condizione di invisibilità della componente studentesca non corrisponde quindi a una assoluta debolezza: la battaglia contro gli spazi vissuti dagli studenti nel centro cittadino va avanti da decenni, e ancora sembra lontana dal concludersi. Più che una battaglia bisognerebbe forse parlare di una guerra di posizione, in cui l’intento dei nostri nemici non è però quello di eliminarci, ma appunto di rifunzionalizzarci. Magari di inventare un distretto studentesco nella vicina Bolognina che coniughi lo stile underground con la distanza dal centro città; il centro, quello dell’attuale zona U, va riservato per i turisti e per la costruzione della Bologna città del food. Ma non vogliamo dilungarci qui su questi aspetti, l’elemento che ci interessa è che le abitudini stesse, la maniera di stare nei diversi luoghi, diventano la posta in gioco di questo scontro. Ecco perché assistiamo alla grottesca difesa della pavimentazione e dei pilastri di Piazza Scaravilli: non è in discussione la tranquillità del vicinato – in quella piazza ricordiamolo, non vive nessuno – ma la stessa percezione estetica di quello spazio, che potrebbe essere un luogo di incontro, di eccedenza, oppure un asettico luogo di passaggio, destinato a diventare salotto universitario in poche grandi occasioni.

Movida è il nome di un movimento controculturale libertario che prese piede nelle strade spagnole alla fine della dittatura franchista. Nel paese iberico, riempire le strade di feste e arte fu la risposta a decenni di repressione e stretta disciplina dei costumi. Nell’immaginario corrente la movida è solo un nome come un altro per la socialità notturna e le varie attività che le si accompagnano, senza nessuna distinzione tra il circuito commerciale e le molteplici modalità di “stare insieme”, diversissime tra loro, che si incontrano nelle piazze. Difendere la movida quindi espone subito al rischio di una cattura nella macchina dicotomica, quella che suddivide lo spazio dello studio da quello del consumo e del divertimento, riconducendoci all’organizzazione binaria di cui parlavamo all’inizio. E questa dicotomia non può che risolversi nella costituzione di spazi separati per queste due modalità (perfettamente valorizzabili) di attraversamento del tessuto cittadino.
Rompere la dicotomia, prendersi una socialità non consumistica in tutti gli spazi che vogliamo, centro e periferia. Forse puntare in alto è l’unico modo per non rimanere schiacciati: invece che riproporre un format, una rappresentazione della “nostra” Scaravilli, del “nostro” spazio, invece che cadere nella solita trappola della rappresentazione a cui la dialettica democratica ci ha abituato, il passo di lato potrebbe essere quello della moltiplicazione. Sperimentare, certo portando festa e socialità un po’ ovunque, ma anche momenti di gioco, di convivialità e di discussione. Fare della stessa estetica un campo di battaglia: se la “Bologna controculturale” è ormai un oggetto da museo e da depliant per turisti, ritornare all’elemento di rottura che ha animato anche il campo artistico, organizzare scientificamente la battaglia contro i comitati di pulitori dei muri, liberare la vitalità sotto l’asfittica mitologia cittadina.