ALMA MATER DECORUM

Scaravilli is the new piazza Verdi

Aprendo il sipario che celava i lavori in corso, la scena apparsa è stata più grottesca del previsto anche per gli standard di decorosa e redditizia riqualificazione a cui i vari registi felsinei dell’horror vacui urbano ci avevano abituato. Non era inusuale negli ultimi anni attraversare distrattamente via Zamboni e notare il periodico spuntare in piazza Scaravilli (proprietà dell’Alma Mater) di nuovi arredamenti e strutture architettoniche, scelte più o meno felici a seconda dei casi, che andavano ad incidere in varia misura sulle posture sociali da assumere nel vivere tutti i giorni questo spazio. Ad ogni modo, quel rettangolo di cemento circondato da portici, nonostante la propria generale subalternità rispetto a Piazza Verdi, sembrava mantenere alcune prerogative costanti come luogo di aggregazione diurna e notturna: chiunque abbia frequentato la zona può facilmente ripescare ricordi delle innumerevoli pause pranzo, svaghi pomeridiani, confusioni serali, attività di gruppo più svariate, feste Erasmus, musica e coriandoli con generazione di relativi sentimenti contrastanti eccetera eccetera. Tutto questo fino allo scorso inverno, quando in pieno coprifuoco e con Piazza Verdi transennata a tempo pieno e presidiata da pattuglie di vario genere, piazza Scaravilli si era ritrovata a ricoprire l’insolito ruolo di raccoglitore e catalizzatore di quel magma di bisogni di socialità che non era più possibile esprimere altrove. Nella città deserta quel luogo pareva essere diventato una zona franca dove riunirsi e (senza che stiamo qui ad imbastire ipocrisie di sorta) fare festa; questo almeno fino a quando le volanti, dopo qualche giro di avvertimento, non si fossero fermate riprendendo il controllo della piazza e facendo defluire i presenti verso via Belle Arti. In tutto questo, proprio mentre le maggiori testate italiane inchiodavano il dibattito pubblico pandemico sulla croce della gioventù irresponsabile, da qualche meandro imprecisato dell’Unibo echeggiava la voce del consiglio degli studenti a richiedere l’istituzione di sanzioni disciplinari nei confronti di chi venisse beccato in flagranza di assembramento [di questo abbiamo già trattato qui: https://unincubo.noblogs.org/contraddizioni/rappresentanza/#more-85]. È in questo contesto quindi, quando sui muri si constatava che “Scaravilli is the new Piazza Verdi” e che “sono le 22:00 passatissime”, che a febbraio anche lì si sono materializzati recinti e transenne, destinati a segnare tutta la primavera a seguire fra lunghi periodi di vuoto e brevi scorci di riappropriazione della piazza con l’approssimarsi dell’estate. Questi sarebbero per sommi capi gli ultimi sprazzi di vita di questo luogo per come lo abbiamo conosciuto, perché a partire dal 17 giugno, impenetrabili alla vista, sono iniziati i lavori di rinnovamento, disvelatisi a noi comuni mortali nella loro forma finale solo dal 9 di ottobre in occasione dell’inaugurazione ufficiale. L’accoglienza della nuova Corte della luce di piazza Scaravilli, pensata «per favorire una migliore fruizione dello spazio da parte di studenti e cittadini» e, più precisamente, «​​​​​​​per promuovere e potenziare l’utilizzo di questo spazio nel cuore della cittadella universitaria bolognese», è stata in realtà a detta di molt* student* un grande flop. Sarà perché di promozione e cambiamenti non aveva bisogno, sarà per l’ingente spesa di 770mila euro che ha richiesto l’intervento, oppure perché adesso la piazza sembra semplicemente più brutta di prima e meno ospitale alla sera a causa delle proiezioni e delle luci colorate, fatto sta che le reazioni dell* student*, piuttosto che di gioia, sono state segnate da un significativo malcontento. Cerchiamo di capire il perché.

 

La Corte della luce, o il tentato urbanicidio di piazza Scaravilli 

Schematizzando, possiamo affermare che il dispendioso intervento di “promozione” di piazza Scaravilli si sia giocato soprattutto attorno a cinque elementi di novità: la pavimentazione, le sedute, i tre “portali” di ferro, le luci, da distinguere tra 16 fari colorati e 15 proiettori, e gli operatori addetti al controllo. Come evidenziato dallo stesso articolo di presentazione da parte dell’Università, proprietaria della piazza ed ente finanziatore dei lavori (anche se i fondi provengono da un progetto europeo: Horizon 2020), gli obiettivi erano di migliorare lo spazio su due livelli: estetico e funzionale. Per quanto riguarda il primo, possiamo affermare che un ruolo di primo piano sia ricoperto dalle luci: i proiettori sono deputati alla riproduzione di logo (sulla pavimentazione) e di scritte incorniciate da fantasie (sulle pareti sovrastanti i portici) quasi tutte a tema Unibo. Una speciale chicca di malessere ce l’ha regalata la proiezione di un’immagine risalente ai fatti del marzo ’77, quando dopo l’uccisione di Francesco Lorusso e con la città in sommossa, i mezzi blindati vennero inviati in via Zamboni. Il tentativo di recupero da parte dell’Alma Mater di una delle sue pagine più buie ci fa domandare se alla base di questa scelta ci sia una genuina ignoranza delle proprie responsabilità, o una altrettanto genuina rivendicazione dell’utilizzo dell’esercito contro gli studenti. Non potremmo dirci sorpresi dalla seconda opzione. Le potenti luci colorate, invece, che dal rosso virano al viola e poi al blu, mirano ad instaurare un’atmosfera senza dubbio chic. Ne risulta uno spazio fortemente connotato dalla presenza dell’Università, o meglio, dall’immagine che questa intende promuovere di se stessa e riprodurre nelle soggettività de* frequentator* o comunicare a* turist*. Questa immagine rappresenta in pieno l’essenza dell’ente promotore: l’eccellenza che, tronfia, si autoproclama saturando la piazza di significati a discapito di un vissuto da costruire e condividere insieme, dalla mattina quando frettolos* attraversiamo la piazza per raggiungere il luogo della lezione, alla sera quando abbiamo semplicemente voglia di svago. L’estetica chic sostanzia poi questa “griglia”: il significato, oltre ad essere calato dall’alto con intenti autocelebrativi (superbo e stucchevole), risponde ad un’idea di ordine (stile delle decorazioni) e di reddito (ricercatezza) esclusiva ed escludente, veicolandola con messaggi più o meno subliminali. Pavimentazione, sedute e portali si pongono a questo livello in maniera coerente con l’elemento-luce, ma possiedono un ruolo ancillare, in grado sì di impattare sul profilo estetico della piazza, ma senza, di per sé, ottenere significative ripercussioni sul vissuto de* frequentator*. Un appunto specifico si rende necessario, invece, per la presenza degli operatori addetti al controllo. L’estetica affermata attraverso la loro semplice presenza, precede infatti la loro reale funzione. La legge (giusta o sbagliata) è sempre presente: se vivi nell’illegalità ti conviene girare alla larga; se invece sei in regola, fai comunque attenzione che qualcosa che non va la possiamo sempre trovare. 

Sul piano funzionale, invece, dobbiamo per prima cosa notare come la nuova pavimentazione, più alta della precedente, abbia coperto uno scalino molto caro a tutt*, dal momento che consentiva di sedersi tutto intorno alla piazza, “aprendo” in qualche modo allo stazionamento anche lo spazio al centro. La possibilità di sedersi per fortuna non è stata però obliterata, ma solo sostituita con, appunto, le sedute, per funzione paragonabili a delle lunghe panche, secondo alcun* persino più comode dello scalino, che era in effetti molto basso. Questo nuovo elemento restringe sì lo spazio a disposizione in cui stazionare, ponendosi come i nuovi punti di riferimento “esterni” al vissuto nella piazza, ma questo non sembra aver intaccato l’appetibilità dello spazio contenuto all’interno. I portali di ferro, inoltre, non sono delle semplici decorazioni, ma vere e proprie installazioni propedeutiche all’allestimento di un palco per eventi. Il semplice fatto di favorire questa possibilità non costituirebbe di per sé un elemento ostile. Ciò che non va giù è il pensiero che a partire da ogni primavera e all’inizio dell’estate gli eventi potrebbero essere tutt’altro che occasionali, che il palco molto probabilmente non verrà rimosso dopo ogni utilizzo, e che quindi si impedirà di fatto la frequentazione della piazza, proprio nel momento in cui sarebbe più fruibile grazie alle condizioni climatiche e meteorologiche favorevoli. Per quanto riguarda le luci, poi, l’intensità e il leggero (e quindi subdolo) fastidio che provocano alla vista dovrebbero dissuadere le persone dallo stazionare in piazza quando queste vengano accese, e cioè al calar del sole. Last but not least, non dimentichiamo il ruolo delle guardie private: “sorvegliare e punire”, o almeno avvertire subito le forze dell’ordine qualora qualcun* si azzardi a mettere un po’ di musica oppure ad attaccare manifesti o volantini sui portali. Al contrario delle aspettative (ufficiose) dell’Università, l’insieme di questi fattori è stato letto dai più come una dichiarazione di guerra, a cui in molt* stanno rispondendo per le rime. Dall’altro lato, la discrezione dell’ostilità lascia aperti considerevoli margini d’azione, rendendo ancora possibile in piazza, anche alla sera, il semplice svago disinteressato. Le serate “organizzate” fanno quindi solo da cornice ad una frequentazione quotidiana e ostinata del luogo, che nonostante la nuova veste decorosa sembra ad oggi mantenere la propria anima libera e democratica. Per evitare di scadere in una retorica stucchevole e inutile, troppo spesso fatta propria dalle narrazioni “anti-decoro”, è bene precisare come questo non possa essere il punto di arrivo, ma sia da porre invece come condizione di partenza per risolvere davvero eventuali problemi (incuria, molestie, eccetera), evitando di spostarli nella piazza adiacente o di nasconderli alla vista, bensì affrontandoli alla radice e risolvendoli insieme. Fino ad oggi quasi sempre le amministrazioni comunali si sono spese invece in interventi di tipo repressivo, spendibili sul breve termine agli occhi dello spicchio di elettorato di turno e sempre consonanti alle esigenze del mercato immobiliare, o meglio, di chi ne trae profitto a spese di chi si trova costrett* a pagare affitti troppo alti e di chi rimane senza casa.

 

Breve storia del decoro a Bologna

Bologna può essere considerata la culla del securitarismo di sinistra in Italia. Sulla spinta della nuova morale di stampo neoliberale affermatasi nel corso degli anni ‘80 dapprima negli Stati Uniti e poi in Europa, l’ “Emilia rossa” ha iniziato ad assumere a partire dal decennio successivo pratiche intese ad assecondare il dibattito delle destre circa la lotta al degrado. Il progetto regionale Città Sicure, approvato nel 1994, accettava la narrazione berlusconiana che aveva per prima cosa messo al centro della propria agenda politica i temi del degrado e dell’insicurezza sociale, e come seconda li aveva resi “raggiungibili” confondendo la lotta alla povertà con la lotta ai poveri. L’eredità di Pier Luigi Bersani, allora presidente, verrà raccolta anche dai sindaci bolognesi, che nel frattempo (riforma del 1993) si erano trovati a ricoprire nuovi poteri e responsabilità. L’elezione diretta dei sindaci si mescolò allora con retoriche leaderistiche che (semplificando) avrebbero partorito le figure allora inedite dei sindaci-sceriffo a cui oggi siamo abituati. Sergio Cofferati, sindaco tra il 2004 e il 2009, è forse la maggior espressione di questa tendenza, e non a caso fu soprannominato proprio “lo sceriffo”. Anni dopo, mentre sul piano nazionale il Partito Democratico si giocava gli ultimi scampoli di credibilità con il decreto Minniti, Bologna portava avanti la propria battaglia con Virginio Merola, affiancato dai sodali assessori Alberto Aitini e Matteo Lepore, oggi sindaco a sua volta. In pieno stile centro-sinistra, la repressione di forme di socialità, politica o vita indesiderate e, dall’altro lato, le linee guida che orientano le scelte urbanistiche sono da allora superate con abilità da una narrazione che fa leva su singoli progetti ben riusciti, ignorando la visione d’insieme. Non sorprende che questa sfugga anche ai giudici dell’Engaged Cities, premio rilasciato da Cities of Service, ente fondato da un altro maestro di cerchiobottismo quale Michael Bloomberg e oggi legato alla John Hopkins University, e che nel 2018 è stato conferito proprio al Comune di Bologna. Senza stabilire un nesso diretto tra le politiche del decoro e i meccanismi di gentrificazione, dobbiamo prendere atto di come queste linee procedano in parallelo e talvolta si spalleggino a vicenda. Con “gentrificazione” si intende infatti un insieme di trasformazioni della città o di una sua zona tali per cui l’area in cui essa avviene diventa più costosa e dunque esclusiva. L’aumento dei valori immobiliari, dei prezzi degli esercizi commerciali e la trasformazione/sostituzione della loro stessa natura, le abitudini e attitudini de* suoi frequentator*, l’affermarsi di un’estetica più ordinata e ricercata, sono tutti fattori che contribuiscono a questi processi. Per questo motivo, seppur sarebbe sbagliato sovrapporre le due questioni, non possiamo fare a meno di guardare all’attuale emergenza abitativa come sempre consonante, a volte strutturante, le politiche del decoro.

Il problema della casa non è certo una novità nel contesto bolognese. Persino negli anni ‘70, durante i quali Bologna divenne un vero e proprio modello in fatto di politiche urbanistiche e legate all’abitare, la situazione rimaneva critica. Negli anni a venire essa è stata riassorbita dalle dinamiche di mercato, provocando il graduale riemergere di una tensione abitativa sempre più forte, oggi potenzialmente esplosiva, soprattutto per quanto riguarda il centro storico e immediate vicinanze. In quanto student* sappiamo di contribuire da tempo al lievitare dei valori immobiliari, come clienti della merce-casa. La grande domanda, lasciata al libero mercato, supera di gran lunga l’offerta di affitti a basso costo. Per dare la cifra dell’impatto dell’intervento pubblico, che dovrebbe promuovere il diritto allo studio, si consideri che su circa 35mila fuorisede che siamo, a cui si aggiungono le bolognesi che ogni anno lasciano la casa dei genitori, solo 1600 circa hanno diritto ad un posto in studentato, almeno di quelli gestiti da Er.go (Student Hotel e Camplus, al contrario, sono già incarnazioni della speculazione). Negli ultimi dieci anni, a queste premesse va ad aggiungersi l’aumento dei flussi turistici. Di solito etichettiamo come “turistiche” le città in cui il numero di visitatori annui supera di gran lunga il numero di abitanti. Bologna è allora senza dubbio una città turistica. La ristrutturazione del mercato immobiliare mantiene quindi il ruolo delle studentesse (aumentate anche loro) per sostenere i valori immobiliari, ma scandaglia le nuove frontiere del profitto facendo leva sulla merce-turista. La proliferazione delle piattaforme per affitti brevi come Booking ed Airbnb rappresenta solo la contingenza di un sistema ben più articolato e difficile da afferrare ed attaccare. Senza sentire l’esigenza di interrogarci sugli obiettivi dei fondi finanziari o dei capitalisti e padroncini in generale, qual è il ruolo del Comune in tutta questa vicenda? E che dire di quello dell’Università oppure della Regione? Più scendiamo in profondità nei ragionamenti e più ci rendiamo conto che è necessario ampliare il campo di indagine, ma non sarà questa la sede dove cimentarsi in questa operazione. 

Uno degli ultimi tasselli che lastricano la strada verso la produzione di una città sempre più soffocante è stata la proclamazione dei portici di Bologna come patrimonio UNESCO. Giunta quest’estate, la notizia è stata accolta con entusiasmi plebiscitari come manifestazione di positività assoluta, un risultato così limpido da non poter neanche contemplare la possibilità di una critica, una messa in discussione del principio dato per assodato secondo cui la stellina concessa sia incontestabilmente buona. E ancora una volta, appena ci domandiamo per le vite di chi e come quest’evento costituirebbe qualcosa di buono, il gioco delle tre carte si rivela lugubre e identico. Perché senza dubbio non è una sorpresa che tutto ciò sia ben visto da chi ha interesse a costruire una città cartolina a misura di turista, ma noi abbiamo imparato sulla nostra pelle come non ci sia nulla di buono dietro l’angolo, e questo a raccontarlo non sono le nomine Unesco, ma le bettole affittate a prezzi allucinanti, gli spazi privati che si moltiplicano per una specie di inaggirabile legge naturale, la socialità vissuta con sempre più ansia perché sappiamo che saremo noi i cattivi da additare fino a quando tutti gli spazi non frutteranno il massimo capitale possibile. E fra i tratti di portici che si sono conquistati la miracolosa consacrazione  ci sono anche quelli di via Zamboni, un altro segno dei tempi che forse ci porta a comprendere meglio la gigantografia del logo dell’Alma Mater proiettato su piazza Scaravilli: questo luogo non è tuo.

 

Puntoni is the new piazza Scaravilli (ma anche no)

Negli ultimi anni, lo sa bene chi vive a Bologna da prima della pandemia, un consorzio di forze composto da comitati di quartiere e giornali locali ha trovato nel Comune ed in parte dell’opinione pubblica un terreno più che mai fertile nella “lotta al degrado”. Le stesse figure che nel 1997 liberalizzarono e incentivarono l’apertura di attività al dettaglio nei centri storici (legge Bersani riguardante “Interventi urgenti per l’economia”) e che assecondano da allora i meccanismi di gentrificazione sopra descritti, gridano allo scandalo quando vedono la socialità concentrata in pochi posti particolarmente vivibili. Piazza Verdi, al centro della zona universitaria, era tra questi, e portava con sé i pregi e i difetti di un luogo molto frequentato. I pregi comprendono tutti i modi di stare bene in una piazza, una dinamica piuttosto autoevidente che non ha bisogno di essere qui esplicitata. I difetti, denunciati con solerzia dal consorzio di cui sopra, ma alcuni dei quali ravvisati dall* stess* frequentator*, andavano (e vanno) dalla confusione prodotta fino a tarda notte e subita dai residenti alla sporcizia lasciata in giro, dagli episodi di violenza alla pratica dello spaccio di sostanze stupefacenti, fino alla semplice “postura” di chi stia sedut* in piazza a bere birra in bottiglia. Questi elementi, e più in generale un determinato modo di vivere la piazza, diventano allora terreno di contesa tra quelle che, seppur molto eterogenee, possono essere individuate come due forze in gioco. Comitati, giornali e in buona parte Comune intenderebbero risolvere queste contraddizioni spostandole semplicemente da lì, poco importa se siano destinate a riprodursi a pochi metri di distanza, come in piazza Scaravilli; i frequentator* in genere suggeriscono di affrontarle alla radice oppure di risolverle in maniera mirata evitando di “curare la malattia uccidendo il paziente”. Si può tentare di risolvere almeno in parte il problema della sporcizia aumentando il numero dei cestini e tollerando chi nonostante ciò non collabori; il problema della tutela del sonno delle residenti potrebbe essere affrontato evitando di spostare le persone anche dai luoghi che non presentino abitazioni nelle immediate vicinanze (non a caso gli unici in grado di fare veramente leva su questo discorso sono gli aderenti al comitato di via Petroni); gli episodi di violenza sono certo da prevenire e curare, ma sono innanzitutto occasionali, rientrano (purtroppo) nella normalità di luoghi così frequentati, e nella maggior parte dei casi si tratta di episodi trascurabili impugnati e strumentalizzati nella “lotta al degrado”. Le pratiche di spaccio e consumo di sostanze (soprattutto droghe leggere), è da prendere inoltre nelle sue contraddizioni, mentre la questione della postura, non è un problema, ma al contrario  una vera e propria rivendicazione: di poter consumare in posti accoglienti birrette a basso costo. 

La lotta al cosiddetto degrado in zona universitaria muove i primi passi nel 2014 con un’ordinanza “anti-alcool” che sarà la prima di una serie, tra proroghe e altre ordinanze, che ancora oggi non conosce fine. L’obiettivo, costante negli anni, è quello di “regolamentare” il consumo di bevande alcoliche nella zona. Nella pratica si impongono divieti ed orari di chiusura anticipati per alimentari ed esercizi commerciali come pizzerie da asporto, paninari e kebabbari che prevedano l’acquisto di bevande alcoliche, ma non sono soggetti a restrizioni di sorta bar, pub e simili. Lungi dal disincentivare la pratica in questione, e aprendo anzi possibilità al mercato nero (soprattutto di birre in bottiglia), la regolamentazione imposta è andata ad inserirsi e a riprodurre linee di reddito e di razza che fanno di queste ordinanze misure classiste e razziste. Classiste perché l’attacco non si rivolge all’alcol in generale, ma solo verso quello a basso costo; razziste perché la maggior parte dei proprietari o dei gestori delle attività colpite sono stranieri (di origine nord-africana, mediorientale o asiatica). Tuttavia, l’anno della svolta è il 2017. Per prima cosa, vengono rimossi i “cubi”, disposti in piazza e lungo il tratto di via Zamboni fino a piazza Puntoni, che avevano la duplice funzione di separare lo spazio per il transito da quello della sosta e di fornire un comodo spazio per sedersi. Le Scuderie, poi, vengono sottoposte ad una pesante opera di restyling, che ne fa da adesso un posto un po’ chic, e le bevande alcoliche vengono escluse dagli sconti di cui godono le studentesse nel bar convenzionato con l’Università. Accanto, il nuovo Unibo Store va a sostituire una libreria (2018). Successivamente, a partire dalla primavera e per tutta l’estate del 2018 e del 2019, vengono allestiti in via del Guasto chioschi dallo stile ricercato e dai prezzi quasi proibitivi (il “Guasto Village”), e in piazza Verdi un grande palco per eventi oppure altri tipi di installazioni (come ad esempio un punto informazioni) ad occuparne e “spezzarne” lo spazio. Più di recente sono state apposte delle transenne in prossimità dello scalino del teatro comunale, con il chiaro intento di impedire alle persone di sedersi. Il tutto è stato condito da una costante ed invasiva presenza poliziesca, più o meno attiva a seconda delle contingenze. Così è nata piazza Scaravilli, fino a quel momento una piazza in qualche modo secondaria per la socialità studentesca. Nel frattempo, peraltro, questa piazza era stata valorizzata vietando alle macchine di parcheggiare e installando un giardino urbano (progetto “Malerbe” – 2017-2018), all’interno di un progetto di riqualificazione della zona universitaria denominato U-Lab. In questo stesso progetto sono stati recentemente investiti ben due milioni di euro provenienti dai fondi europei di Horizon 2020. 770mila sono già stati spesi per dissuadere i frequentator* dal sostare in piazza la sera; mentre scriviamo questo articolo altre migliaia di euro stanno per prendere la forma di una nuova, immaginiamo odiosa, illuminazione al tratto adiacente di via Zamboni, da piazza Verdi a piazza Puntoni. Nello stesso periodo sono stati inaugurati o annunciati i nuovi complessi universitari del Navile e fuori porta Saragozza, e abbiamo appreso che le associazioni studentesche non riavranno i loro spazi centrali in via San Giacomo, ma verranno accolte all’ex stazione Veneta di via Zanolini. Spostare le student* dal centro storico verso l’esterno per rimuovere degrado e redditi medio-bassi e lasciare spazio al turismo e ad un’Università da cartolina: entro queste linee si è mosso Ubertini durante il suo mandato; questo è il testimone raccolto da Giovanni Molari.