Sullo scarto esistente fra “comunità” e rappresentanza studentesca

È da anni ormai che la città di Bologna sta vivendo, in ritardo rispetto ad altre città italiane, un processo cosiddetto di gentrification, per cui si fa in modo di “valorizzarne” delle parti tramite la promozione di una supposta cultura “alta”, decorosa, ma soprattutto (e questo dato è tangibile e quantificabile) da un punto di vista economico, che finisce con l’espellere dai quartieri abitanti e frequentatori che non riescano a stare dietro ai prezzi che aumentano.

A questo discorso si lega la crociata, cresciuta negli stessi anni, che viene perpetuata contro la “movida” in zona universitaria (ma vedi anche Piazza San Francesco…), che è tornata alla ribalta nel periodo Covid e che è diventata, con il calare dei contagi degli ultimi tempi e quindi la maggior libertà, una questione all’ordine del giorno dell’agenda comunale, del comitato di quartiere Piazza Verdi, dei giornali e della Questura.
Senza entrare nel merito della questione, che già viviamo e di cui tanto si parla, volevo concentrarmi su un episodio avvenuto recentemente e a mio parere emblematico del rapporto che esiste (anzi, che non esiste) tra noi studentesse e studenti e la nostra rappresentanza che, eletta ogni 3 anni, dovrebbe portare nelle apposite sedi istituzionali dell’Università le nostre istanze e farle valere.
Ebbene, tre giorni fa (8 giugno), mentre negli stessi giorni si spiegavano le forze dell’ordine per cercare di ridimensionare la “movida fuori controllo” degli ultimi tempi, il Consiglio degli studenti approvava una mozione presentata da Azione Universitaria (i fasci) che chiedeva all’Ateneo di introdurre delle sanzioni per chi prenda parte ai “fatti incresciosi” della “cosiddetta zona universitaria, con serate di movida e violazione delle norme”. In realtà con loro si sono schierati solo i rappresentati eletti di Student Office (Comunione e Liberazione), ma tanto è bastato per avere la maggioranza: il risultato finale è di 14 voti a favore contro i 13 delle altre liste.
Ora, l’oggetto polemico non vogliono essere né le intenzioni di una misura che, questa sì, sarebbe incresciosa, né i giochetti di partitini che hanno proposto la mozione nonostante non ci siano i tempi tecnici per farla approvare a causa della/grazie alla fine del mandato del Rettore. Questo maggior ragione se consideriamo che la proposta era già venuta fuori nei giorni precedenti e aveva trovato l’opposizione persino del Prorettore Degli Esposti, perfetto ingranaggio nella azienda Unibo (sulle possibili motivazioni alla base di questa posizione non è il caso di inoltrarci, ricordiamoci solamente di quanto la polizia sia già presente dentro e fuori gli edifici dell’università). Niente di tutto ciò, quindi.
Il punto, invece, che vorrei evidenziare è che mentre in Consiglio degli studenti passava questa mozione, in zona universitaria centinaia di persone ogni giorno, dal tardo pomeriggio fino alla sera oltre l’orario del coprifuoco, vivono le strade e le piazze, si riprendono gli spazi a lungo negati e ritrovano una socialità per noi indispensabile. È evidente quindi, ed emblematico, il forte scarto presente tra queste due realtà, soprattutto se consideriamo che se centinaia di giovani riescono a darsi il cambio ogni sera nella zona, significa che a gravitare intorno a questa “pratica” siamo in migliaia…
Fa sorridere ripensare a quando il già citato Prorettore, durante le giornate di mobilitazione di gennaio e febbraio, provò a scalfire la convinzione della nostra legittimità affermando che in settanta che eravamo non potevamo certo parlare a nome di tutti gli studenti, e che ci saremmo dovuti rivolgere ai nostri rappresentanti, alcuni dei quali peraltro erano presenti, rendendosi conto dei propri stessi limiti almeno come rapporti di forza all’interno delle istituzioni.
Lo scollamento tra “comunità” e rappresentanza studentesca è evidente ogni giorno dai discorsi che facciamo e dalla poca partecipazione che riscuotono le lotte portate avanti con più o meno impegno dalle liste. Con questo non si vuole assolvere il disimpegno che permea molti di noi all’interno di questa grande ed eterogenea comunità, e non si intende neanche parlare dall’alto di chissà quale piedistallo, solo rimarcare uno scarto reale, operazione che potrebbe rivelarsi utile per una riflessione che permetta di smuovere un po’ la situazione.
Se oltre a queste argomentazioni di matrice prettamente qualitativa volessimo aiutarci con qualche numero, poi, possiamo riprendere quello delle persone che si sono recate “alle urne” nel corso delle ultime elezioni studentesche del 2019: 10.605 su un totale di 83.709, un numero assolutamente non rappresentativo, a cui si aggiunge peraltro l’ulteriore scarto sempre esistente (anche quando le percentuali di affluenza sono molto più alte) tra elettori e rappresentanti politici; nel 2016 i votanti erano ancora meno, 9.908 su 81.258.
Forse le risposte vanno cercate altrove, nel contatto diretto con le persone e i luoghi che frequentiamo, nel tentativo di mobilitarci e (farci) mobilitare direttamente e fisicamente contro quello che ci sta stretto o che troviamo ingiusto e per un Università che sia un luogo accogliente, dove poter costruire un processo formativo di qualità e che tenga conto delle nostre esigenze.