Perché l’università è un’azienda e perché questo non va bene

È l’esame che serve per studiare meglio o lo studio per passare gli esami? È nato prima l’uovo o la gallina? Basta prenderci in giro: è nato palesemente prima l’uovo, covato dall’antenato della gallina e contenente la sua mutazione, da cui la suddetta gallina, e giù uova a non finire. È l’esame che serve per studiare meglio, permettendoci di figurare davanti a noi un obiettivo tangibile che vada ad intersecarsi con i nostri personali, di obiettivi, dandoci però intanto un effimero e strumentale punto di riferimento.

Ecco, per dirla con un aforisma: l’Università si fa azienda quando lo studio viene subordinato all’esame e al suo punteggio. Molti avranno già capito, avendo sperimentato questa dinamica in prima persona, dove vogliamo arrivare, ma non siamo qui a scrivere per loro, che sanno già, ma per chi ancora genuinamente il dubbio se lo pone: cosa vuol dire che lo studio viene subordinato all’esame e che l’Università è ormai un’azienda? E che cosa dovrebbe essere allora?
Porsi queste domande significa prima di tutto interrogare le motivazioni per cui studiamo. Piacere, interesse, curiosità o semplice svago; perché è utile per fare i fichi, per non farsi fregare, per comandare o evitare di essere comandati (insomma per acquisire potere); per trovare un buon lavoro e fare soldi; per dare un senso all’esistenza sublimando la caducità della vita; magari per cambiarla questa vita, in un modo che ci sembri più giusto. Spesso lo facciamo per molti di questi motivi contemporaneamente, quale più, quale meno.
Nel momento in cui lo studio, poi, si fa istituzione, questa canonizza a suo modo le esigenze della società, o meglio delle forze sociali da cui dipende, quindi di chi ha il potere: permette la trasmissione di saperi utili e soprattutto stimola la produzione di nuove idee e pratiche, che vanno sempre in qualche direzione. Come si colloca, quindi, l’Università nella società di oggi? È evidente che non sia solo un posto dove studiare, ma una realtà a cui attingere e a cui partecipare, è una città dove vivere, sono le persone che si incontrano, con cui ci si confronta e ci si scontra e con cui si crea o si distrugge qualcosa, è un’opportunità, un’esperienza, un investimento, sono le tasse da pagare e il lavoro che grazie ad (o nonostante) essa (non) si troverà.
Oggi, nell’era del capitalismo neoliberista, il potere lo ha chi è in grado di influenzare, tra le altre cose, l’Università e di piegarla così alle proprie esigenze. Senza il bisogno di andare a pescare le Università private, in cui chiaramente è il profitto di chi ci investe a guidarne le politiche, l’Università pubblica oggi è stretta in una morsa in cui sono pochi a guadagnare davvero, e in molti ad adeguarsi (anzi, ad adeguarci) e/o subirla. Gestita formalmente dal Ministero dell’Università e della ricerca, dipende sempre più da investitori privati, ed è quindi verso di loro che in un modo o nell’altro ci muoviamo.
Il peccato originale è stato tagliarle i fondi, compromettendone già in partenza la tanto decantata autonomia (1). A partire dalla fine degli anni ‘80, e via via a più riprese nei due decenni del nuovo secolo, le varie riforme e leggi di bilancio, portate avanti da governi sia di destra che di sinistra, hanno visto una netta e implacabile riduzione nei finanziamenti pubblici a scuola e università (2). Questo ha senza dubbio favorito un processo che però era già in atto, e cioè l’instaurarsi di meccanismi di compensazione tramite investimenti privati oppure quote da assegnare, mediante le valutazioni vincolanti dell’ANVUR, a seconda di criteri discutibili. Tra questi ad esempio il fatto di premiare le università “migliori”, creando un circolo vizioso che perde per strada quelle che stanno più indietro in questa che è diventata una corsa al monopolio; l’internazionalizzazione che diventa un fine in sé, contribuendo così ad incentivare i dipartimenti ad investire in alcuni corsi di laurea piuttosto che in altri – apparentemente – altrettanto importanti; aziende e attori economici locali che dettano la linea, finanziando i dottorati e così scegliendo e blindando in accordo con i docenti alcuni vincitori piuttosto che altri sulla base del proprio futuro profitto e acquisendo potere decisionale all’interno dei Consigli di Amministrazione; per non parlare della “Terza Missione”, che di fatto asservisce l’Università alle imprese locali nell’ottica di offrire un servizio alla città. Questo processo vede quindi mutare gli obiettivi dell’Università, che a prescindere dalle belle parole (a volte anche delle migliori intenzioni!) dei Rettori sono costrette ad inseguire questi finanziamenti se vogliono rimanere a galla, innescando quei circoli viziosi tipici del capitalismo in cui per poter pensare di investire sull’aumento dei salari (sull’abbassamento delle rette universitarie) si è costretti prima ad investire sulla competitività del prodotto, come se quel profitto fosse poi svincolato dai processi che lo hanno generato (il dopo non arriverà mai):

“Tali riforme istruiscono il principio cardine dell’autonomia dell’Università come il capitalismo istituisce la libertà del lavoratore salariato” (3).

Parallelamente ad un cambio nelle finalità si assiste poi, sempre a partire dalla fine del secolo scorso, ad un aumento del controllo, con un evento su tutti occorso proprio in casa nostra: il Bologna Process. Correva l’anno 1999, ma il processo era in atto da tempo e aveva già dei precedenti e dei prototipi. L’intento del trattato era quello di uniformare il sistema universitario nella nascente Unione Europea (4), ma si trattava di un’arma a doppio taglio. In un momento in cui si stava verificando il cambio di passo da parte del “capitale” nei confronti dell’Università, definire e uniformare ha significato controllare che niente andasse storto e incentivare la produzione, senza troppe distinzioni a tal proposito tra l’accademia e il mondo del lavoro situato al di fuori di essa. Farcito il tutto dalla retorica meritocratica, si sono rapidamente persi di vista gli aspetti controversi e rischiosi di questo approccio.
Il pericolo, che come studenti viviamo ogni giorno, è quello di vedere i ritmi intensificati a discapito dei saperi, ma anche di quella socialità che non è un corollario, bensì al centro dell’esperienza universitaria; il pericolo è che l’Università perda valore, sia come forza lavoro che come esperienza formativa, fatto che troverebbe conferma in un’ancora numericamente contenuta – ma crescente – tendenza all’abbandono dell’università (trend riscontrabile a livello transnazionale) (5). Un esempio su tutti emblematico di questo “nuovo” (storicamente parlando, anche se noi ci siamo cresciuti…) approccio è l’affermarsi delle prove scritte “modularizzate” e prevalentemente basate su domande a risposta chiusa a discapito di esami che almeno contemplino la possibilità di dare spazio alla nostra voce e al nostro sapere critico, perché se oggi il mondo è ingiusto, e lo è, abbiamo bisogno di un sapere critico, possibilmente costruito insieme ai nostri professori.

  1. Paradossalmente la Legge Ruberti, che inaugura in Italia l’allora nuova stagione che stiamo descrivendo, è anche famosa come “Legge dell’Autonomia”.
  2. Tra queste riforme, oltre alla Legge Ruberti (1989), ricordiamo le riforme Berlinguer (2000), Moratti (2003-2005) e Gelmini (2008-2010).
  3. http://effimera.org/universita-nuova-proletarizzazione/
  4. Vedi anche il paragrafo “NOTA sul processo di Bologna” in: http://effimera.org/apparati-educativi-sistema-scolastico/
  5. http://archivio.commonware.org/index.php/framing//83-da-autoformazione-a-autovalorizzazione