Basta coi “risultati”. Riflessione su un anno accademico in situazione emergenziale

È passato ormai un anno dall’inizio della situazione emergenziale causata dalla pandemia, ed è difficile provare a sintetizzare quale è stata ed è tuttora la nostra condizione di studenti e studentesse in semplici parole. La forza di volontà che spinge le nostre menti a provarci è frutto di dissensi accumulati e repressi, che sono stati finora affrontati con troppa passività.

Ma l’indifferenza non è più praticabile in una situazione in cui, mai come ora, l’Università e le misure adottate nei nostri confronti sono calcolate in termini di “investimenti” e “risultati”. Il 22 gennaio scorso, alcune testate giornalistiche riportavano le parole dell’oggi ex-Ministro Manfredi che si esprimeva in merito alle prospettive della gestione della didattica dei prossimi mesi; in particolare, sul Resto del Carlino si legge:

“Stiamo raccogliendo in maniera dettagliata i dati del 2020 […] e ci dicono che il numero di crediti acquisiti dagli studenti e il numero dei laureati sono assolutamente in linea con il 2019”, cioè con l’anno prima della pandemia. “Quindi – sottolinea Manfredi – malgrado le grandissime difficoltà che abbiamo vissuto, dal punto di vista del risultato non ci sono stati arretramenti. Certamente c’è stata grande sofferenza nella comunità universitaria e studentesca”, per il fatto di non essere in aula. “Ma dal punto di vista del risultato – ribadisce il ministro – il grande sforzo del sistema universitario ha consentito agli studenti di limitare i danni e fare in modo che le carriere non fossero rallentate” (1).

Ciò che conta è il risultato. Peccato che la considerazione del risultato escluda la natura processuale del suo conseguimento. Che credibilità ha l’Università, in quanto istituzione, se l’unica cosa che importa è un dato statistico che ha la presunzione di rispecchiare criticità e interiorizzazione di saperi che, si presume, nutrano le nostre coscienze? L’accettazione a testa bassa di tutte le misure adottate finora non significa mero assenso, al contrario è sintomo di un blocco espressivo alimentato dalla corruzione della natura accademica dell’Università. Con queste parole, si tenta di ribadire la nostra posizione in quanto studenti e studentesse dell’Ateneo: menti capaci di elaborare ciò che riguarda il nostro percorso formativo. La nostra formazione non è un risultato, ma un processo, e il paradosso è che a furia di guardare i risultati, il processo si annulla.
In termini pratici, l’Università di Bologna, dopo qualche tempo di comprensibile smarrimento, si è riorganizzata sotto alcuni aspetti molto bene e in tempi rapidi. Per quanto riguarda la messa in campo della didattica a distanza, ad esempio, già il 13 marzo era possibile, per tutti coloro dotati di PC, di una buona connessione Internet e di uno spazio tranquillo, accedere alle lezioni e agli esami online. Per non parlare del prolungamento (20 marzo) dell’anno accademico 2018/2019: fino al 15 giugno i laureandi che si erano visti, proprio in dirittura d’arrivo, crollare il terreno sotto i piedi. hanno potuto beneficiare di un tempo più congruo a terminare il loro percorso di studi. O che dire della sacrosanta proroga nel pagamento della terza rata delle tasse universitarie (aumentate così tanto peraltro, non ce lo dimentichiamo, nel corso degli ultimi anni) per venire incontro a chi vedeva già allora incombere un momento economicamente difficile? Verranno infine istituiti un bando per l’accesso a schede SIM con 100GB mensili e, a partire da maggio, altre misure di sostegno per chi si era trovato maggiormente in difficoltà. Nonostante i limiti di questi bandi a cui l’Unibo ci ha abituati soprattutto in riferimento ai pochissimi utenti designati come beneficiari, potremmo ragionevolmente pensare: “Fino a qui tutto bene”.
Il problema è che qui, purtroppo, iniziano e finiscono le misure che l’Università ha adottato per venire incontro agli studenti: ma la pandemia non è finita. Già durante il primo lockdown, infatti, proprio mentre iniziavamo a rapportarci con questa nuova modalità di didattica, sono emerse le prime immaginabili difficoltà. Mentre tutti gli spazi fisici venivano (giustamente/legittimamente) chiusi e i servizi interrotti, le mail dai toni trionfalistici inviateci dal Magnifico presentavano (20/03) come un grande successo la disponibilità al prestito in formato e-book, per compensare il cartaceo ormai inaccessibile, di poche centinaia di migliaia di libri (180.000, che si aggiungevano ai 400.000 già presenti): una cosa più simbolica che efficace. Eloquente, a tal proposito, è stato il comportamento della Bononia University Press (la casa editrice dell’Università), che in nessun modo ha contribuito, astenendosi totalmente dalla messa a disposizione gratuita della versione digitale dei libri.
Arriviamo così a maggio, con buona parte dell’Italia che “riapre”: inizia insomma la Fase 2, quella in cui si diceva che avremmo dovuto imparare a “convivere con il virus” fino a quando la pandemia non sarebbe stata sconfitta. Si ricomincia a respirare sotto molti aspetti, materiali ed esistenziali, ma via via che il tempo passa si inizia a capire quale sarà il modo in cui l’Università convivrà con il virus per i mesi a venire. All’interno della scia delle riaperture l’Unibo (anzi, le università in generale) sarà infatti l’ultima ad arrivare e mentre i servizi bibliotecari a giugno riprendono a rilento, per la riapertura di alcune aule studio si dovrà attendere fino al 29 dello stesso mese. Assurdo, se si pensa a tutte le riaperture e ripartenze dello stesso periodo, che vedevano un’Italia tornare lentamente alla “normalità”. Ancora più assurdo se si considera che le aule studio sono spazi potenzialmente quasi “sicuri”: posti limitati e segnalati, dispenser con gel igienizzante, disinfettante per superfici a disposizione degli studenti, ricambio d’aria periodico tramite l’apertura delle finestre e un sistema di tracciamento delle presenze giorno per giorno (aspetto organizzativo problematico, ma risolto a luglio tramite l’app MyUnibo) e tanto bastava per renderle agibili. Con l’alibi dell’emergenza sanitaria, quindi, troppe poche aule studio sono state riaperte, e comunque con orari ridotti: giugno e luglio sono stati mesi molto difficili per studiare, tuttavia si confidava ancora in una svolta con l’inizio del nuovo anno accademico.
Ma ad ottobre la storia è la stessa. Anzi, a dispetto di un’organizzazione ormai affinata non si capisce quali logiche abbiano guidato alcune scelte dei responsabili che operano all’interno dell’Università. Facciamo intanto una premessa: l’Italia tutta in quei mesi, e ancora oggi, è sballottata da una situazione epidemiologica dinamica e mutevole ed è quindi ovvio che, a seconda dei periodi e delle esigenze, le politiche adottate siano cambiate di conseguenza. Qui però non si criticano le decisioni che hanno assecondato queste necessità, ma le scelte sbagliate fatte rispetto ad una serie di alternative tutte possibili.
Ancora oggi non riusciamo a comprendere la natura di queste misure. Come mai, invece che disporre l’apertura in sicurezza di tutte le aule studio, si è invece optato per limitarne il numero disponibile? Questo infatti ha costretto gli studenti ad una caccia ai posti, ad assembramenti che hanno costituito un reale rischio sanitario – si pensi alle file davanti alla sala studio di Palazzo Paleotti o agli affollamenti nel complesso di San Giovanni in Monte, così come nelle sale studio di via Petroni o di Via Azzo Gardino e via dicendo. Oggi il sistema delle prenotazioni continua a renderci la vita difficile e spesso si ricade in situazioni paradossali in cui se una persona non si presenta in biblioteca non ci sarà un’altra persona ad occupare quel posto.
A questo si aggiunge la questione della didattica. Salta agli occhi, ovviamente non solo a Bologna ma a livello nazionale, come scuola e università siano da un anno a questa parte in fondo alla scala di priorità quando si parla di “chiudere” per prevenire nuovi contagi. Senza pretendere di tenere unite situazioni estremamente diverse tra loro rischiando di fare un gran calderone, in quanto studentesse e studenti universitari siamo rimasti colpiti dalla facilità con cui si rinunciava (sempre prima rispetto alle altre attività “non essenziali”, quelle direttamente produttive) alla nostra didattica mista, sicura anche per chi frequenta in presenza.
Una trattazione a parte spetterebbe poi alla questione tesi, tirocini, esperienze all’estero. Quanti di noi hanno dovuto cambiare i propri progetti di studio e di vita allo scoppiare della pandemia? In quanti abbiamo dovuto ricominciare da zero, stravolgendo i nostri progetti, annullando gli sforzi fatti fino a quel momento? Quanta fatica, fragilità, impotenza e depressione abbiamo provato in un momento così difficile, complice l’università? E quanta rabbia, allo stesso tempo, abbiamo covato e trattenuto? Avevamo e abbiamo bisogno di più tempo per laurearci, di un rimborso anche simbolico delle tasse universitarie, ma soprattutto avevamo (e ancora una volta: abbiamo!) bisogno di considerazione, anche e soprattutto del nostro dissenso.
Di fronte a tutto ciò, e col passare dei mesi, si faceva giorno dopo giorno assordante il silenzio in Università. Se da una parte i collettivi e i rappresentanti degli studenti si sono limitati ad informare, raccogliere firme (alle volte anche separatamente tra gli uni e gli altri) e seguire ostinatamente le vie “istituzionali”, l’Università semplicemente prendeva tempo, demandando le responsabilità al Ministero e/o fornendo risposte di comodo. Per tutti questi motivi abbiamo deciso di pensarci noi a risolvere le cose.

  1. https://www.ilrestodelcarlino.it/cronaca/universita-lezioni-presenza-1.5939102