Univer-city: l’università oggi

Univer-city

In questa riflessione guarderò l’università come momento di passaggio dentro dei percorsi di “realizzazione” soggettiva. Prendo in prestito la parola “realizzazione” anche se mi fa schifo l’immaginario finalista a cui allude (quale sarebbe l’obiettivo della vita in base al quale è possibile valutarci su una scala omogenea?), ma per mancanza di meglio la scelgo per riferirmi alla costruzione un quadro di senso dentro cui è pensabile la felicità.

In Italia fin dagli anni ‘80 si è impressa una restrizione verso le forme di welfare capaci di sostenere l’indipendenza dalla famiglia, e si è puntato tutto sul sostentamento inter-generazionale, in particolare dei boomer verso i loro figli e nipoti: difficile in Italia avere le borse di studio, difficilissimo avere aiuti per la casa, però per la maggior parte di chi andava all’università (almeno fino alla riforma Gelmini) la famiglia era in grado di sostenere un ciclo lungo di laurea e a volte anche quel periodo di transizione verso la ricerca.

Oggi la forma specifica dell’esperienza-universitaria italiana, è quella di una fase di transizione che almeno in parte è “a spese della famiglia”, in cui si sperimenta quasi sempre un’indipendenza che però resta condizionale: ci sentiamo in debito, potenzialmente colpevoli di non aver fatto abbastanza. Si parla di “economia politica della promessa” per descrivere la posizione di quel serbatoio di forza-lavoro-ricerca che sono studenti e studentesse, tirocinanti, dottorandx, assegnistx, ricercatori/trici di vario tipo… ma a sostegno di questa, c’è un’economia emotiva del debito e della colpa, che è funzionale al comando proprio per la sua forma intrinsecamente atomizzante: chi è più solo di chi si sente in colpa, a rischio di essere svergognato?

Non è possibile comprendere l’economia politica della promessa e il governo delle fasce giovanili in Italia senza passare per una costruzione del senso di colpa e della “responsabilità sociale”. Nella pandemia questo strumento ben rodato è stato il puntello di ogni strategia, andando a definire anche ogni (im)possibilità d’azione.

Chi c’è oggi in università?

Si possono tagliare in modo abbozzato due tendenze: da una parte una composizione di studenti e studentesse che vedono nell’università la possibilità di conseguire un diploma, un titolo che dia qualcosa di spendibile sul mondo del lavoro; dall’altra studenti e studentesse più o meno interessati a restare nel mondo del lavoro cognitivo, della ricerca o alla ricostruzione di forme di sapere critico. Una terza categoria è quella degli studenti “indecisi” che fanno l’università con l’intenzione di chiarire più avanti il loro percorso di vita. Per semplificare il nostro ragionamento includeremo questa terza tendenza nella seconda.

Queste due figure per me non vanno intese tanto come “gruppi di studenti”, come soggettività già presenti, ma soprattutto come polarità ideali di uno spettro che performa le soggettività, uno spettro che costituisce la sintassi fondamentale dell’economia della promessa: non è un caso se la prima figura si applica al meglio alle competenze tecniche, a cui vengono assegnati dei compiti funzionali nell’organizzazione infrastrutturale del sistema-paese, con maggiori probabilità di impiego in tempi brevi; mentre alla seconda figura vengono concesse più larghi spazi di indipendenza, ma anche meno possibilità di impiego e altre forme di riconoscimento sociale. Dico questo ben consapevole che anche il generico campo delle humanities è attraversato da mille tensioni “tecnicizzanti” e “professionalizzanti”, che lo strutturano e definiscono vari tipi di professionalità, ma sempre dentro questa separazione ideale tra saperi teorici e saperi pratici, una separazione che si riproduce su più livelli, e potenzialmente all’infinito, come un frattale. Ognuno di noi deve sempre commisurare queste due rappresentazioni ideali: quanto siamo pragmatici? Spendili? E quanto invece sfruttiamo la scuola, l’università e i vari campi della formazione (che dire per esempio della formazione continua di un giornalista, un tecnico informatico, un artigiano) per accedere a saperi, esperienze, contenuti, che non ci sembrano accessibili altrimenti? Magari in cerca valori che non sono immediatamente monetizzabili. Ognuno di noi si trova a dosare queste due polarità seguendo inclinazioni personali, contingenze e opportunità.

Se ripensiamo al movimento dell’Onda, uno dei suoi limiti è stato quello di concentrarsi sulla seconda figura, quella più autoriflessiva, e sulle aspirazioni di “presa della cittadella universitaria” (peraltro senza decostruire a sufficienza le pulsioni meritocratiche). Dobbiamo però intendere questo errore non tanto o non solo sul piano delle persone maggiormente coinvolte nelle mobilitazioni (erano le facoltà umanistiche a formare i nuclei più politicizzati), ma anche più specificamente nell’incapacità di eludere la polarizzazione tra saperi teorici-umanistici-riflessivi, e saperi tecnici-scientifici-professionalizzanti. Su questo il movimento aveva sviluppato solo una critica superficiale, incapace di attaccare la dicotomia. Il risultato si è visto nella incapacità di affrontare il tema di una qualsiasi professionalizzazione delle carriere che uscisse dal bacino dell’università: ci si politicizzava dentro il movimento e dentro gli atenei, ma una volta fuori non c’erano pratiche politiche che definissero uno statuto dei saperi, un tessuto di gesti e conoscenze capaci di estendere l’energia conflittuale. Come fare oggi per attaccare questa dicotomia? Per uscire dalla cittadella e avere più armi?

Oggi

La prima composizione, quella di student* interessati al titolo e alla professionalizzazione tramite l’università, bendisposti alla didattica online perché più elastica, avrà sicuramente un’estensione quantitativa a Bologna: il prolungamento di forme di insegnamento online nelle facoltà ad alta professionalizzazione mi sembra inevitabile, e si salderà con processi in atto da anni. Credo che oltre a enfatizzare la porosità col mondo del lavoro, con le attività in azienda, ecc., questo elemento sgretolerà l’efficacia residua della rappresentanza studentesca, perché le problematiche poste dall’online sono inedite e a tutto vantaggio delle gerarchie accademiche. Allo stesso tempo i dispositivi “meritocratici” di valutazione si moltiplicheranno in tutte le facoltà, rendendo l’esperienza universitaria ancora più stressante. La stessa prospettiva di un’università che può sempre essere frequentata “anche online”, potrebbe cambiarne in maniera definitiva la percezione, trasformandola in una successione di prove da completare (come già è) in modo svincolato da ogni eventuale percorso personale nel campo dei saperi o degli incontri accademici.

Questa ristrutturazione apre la questione delle forme di vita nel contesto universitario: l’espansione della modalità online si accompagnerà per molti a un allontanamento dagli spazi cittadini-giovanili di Bologna e di altre medio-grandi città in generale, e quindi ridurrà (ancora) le possibilità di incontro.

Il motivo per cui l’università e la scuola hanno funzionato in passato come bacino di politicizzazione, e per cui le fasce giovanili sono tra i pochi settori che hanno espresso momenti conflittuali durante la pandemia, è relativo alla presenza di spazi di indipendenza dalla famiglia e dal lavoro per queste fasce giovanili. Il contesto universitario in particolare resta uno dei pochi dove è possibile sperimentare massivamente e per periodi di tempo prolungati queste indipendenze, assieme a quella abitativa, anche se come già tutto resta condizionale, a tempo. È precisamente questa condizione pre-politica che sembra caratterizzare l’Italia più di altri paesi, anche quando le lotte studentesche sono deboli: gli spazi della socialità urbana, dell’università in presenza, della scuola in presenza, con le loro contraddizioni, risultano desiderabili perché mantengono alti margini non-governati e dunque nei quali è possibile sviluppare incontri ed esperienze veritiere, mettere a tema ciò che non va nella propria vita.

Quindi, se la politicizzazione più continuativa avviene ancora in facoltà umanistiche e si coagula anche attorno a rivendicazioni di spazi, è perché c’è la necessità diffusa di incontrarsi e di trovare luoghi di agibilità, e perché nelle facoltà umanistiche questa dimensione di incontro è ancora oggi più possibile che altrove. Una dimensione che precede la rivendicazione politica e fatica a esprimersi nel linguaggio politico, ma è emersa come una delle più importanti poste in gioco durante la pandemia.

Dunque, noi che esperienza giovanile ci attendiamo? Come costruiamo spazi d’azione? Come costruiamo comunità che resistono alla individualizzazione dei percorsi di vita, sempre più stringenti? Forsennati, messi al lavoro prima ancora di avere un vero lavoro?

Qui si apre un’altra osservazione che per il momento non ha risposta: le lotte dentro l’università (per le biblioteche, spazi studio, didattica in presenza, sessioni straordinarie) sono ancora del tutto separate dalle riappropriazioni spontanee di spazi urbani.

Se i modi in cui questa dicotomia può essere superata non sono ancora chiari, sicuramente c’è bisogno di approfondire la riflessione, perché il confine tra i due momenti è assolutamente labile per chiunque frequenta l’università, e sembra più che altro funzionale a una amputazione dell’immaginazione.

Che fare? Dove farlo?

Il problema che si pone è quello di potenziare le richieste di indipendenza, di agibilità, di spazi, senza ricadere nella trappola della contrattazione attorno alla cittadella universitaria, perché quest’ultima ipotesi sconterebbe la debolezza strutturale del suo isolamento: l’università critica è una riserva dove costringere forme di partecipazione e dibattito già disinnescate, e questo sarà tanto più vero in un momento di rifinanziamento diretto dall’alto e burocratizzato, come è quello che potrebbe arrivare nel futuro prossimo. Questo non significa che non esistano saperi da sviluppare, autoformazioni da organizzare, tutto il contrario, ma il punto è proprio quello di sviluppare saperi indipendenti dalle logiche già perimetrate che vediamo in atto (perimetrate dagli indici di pubblicazione, dalla valutazione continua, dai rapporti baronali di potere,…).

L’università andrebbe piuttosto pensata come possibilità di accesso a spazi e servizi dentro una rete di esperienze che include il lavoro, l’attraversamento della città, la ricerca di reddito e quella di indipendenza di lungo periodo.

Larissa in questa direzione ha abbozzato una strategia, quella di attaccare l’insufficienza dell’università nell’erogare servizi (spazi di studio, tempo di apertura delle biblioteche…) e, in parallelo, la mancata riduzione delle tasse. In effetti questa integrazione retorica dell’università nel mondo dei servizi e del lavoro potrebbe essere efficace anche in futuro, per congiungere la dimensione online-professionalizzante alle lotte che si svilupperanno nelle facoltà e in città.

Se in pandemia è diventato normale concedere dei ristori a specifici segmenti sociali, perché non sviluppare un dibattito attorno ai ristori economici per studenti e studentesse? L’integrazione discorsiva di studenti e studentesse alle categorie colpite dalla gestione pandemica, avrebbe proprio l’effetto di indebolire il ricatto implicito del tempo della formazione, quel ricatto che dice “non sei produttivo” e che coagula questa improduttività colpevole nella separazione della cittadella universitaria.

La questione irrisolta è quella di una pratica comunitaria-politica che non spezzetti le vite, che non ricalchi i ruoli e le suddivisioni concettuali funzionali al governo delle vite: quindi che non separi il tempo libero dal tempo di studio, il tempo della responsabilità verso il proprio ruolo dal tempo della rivendicazione di diritti, il tempo del sapere accademico dal tempo dell’incontro interpersonale.