Il misterioso caso della Bononia University Press

Sono ormai mesi che il tema della digitalizzazione ha preso la ribalta sul palcoscenico del dibattito pubblico a causa della pandemia di COVID-19. Il rilancio del paese sembra quindi destinato a tenere in considerazione un reale rinnovamento delle infrastrutture digitali in ogni ambito, soprattutto attraverso ingenti finanziamenti come il Recovery Fund (almeno stando ad ascoltare i roboanti proclami degli ultimi mesi). In università, ‘digitalizzazione’ ha significato molte cose: didattica online, esami online, seminari e conferenze in stanze virtuali.

Soprattutto nella prima fase della pandemia, però, la popolazione studentesca si è trovata a fronteggiare un altro problema non indifferente, ovvero reperire libri e materiale didattico per sostenere gli esami con le biblioteche e le librerie chiuse. Per chi poteva permetterselo, la soluzione era acquistare tutti i libri online e farseli recapitare con un corriere. Per le persone che per un motivo o per l’altro (vuoi la perdita di lavoro, vuoi per i prezzi talvolta esorbitanti dei manuali) trovavano complicato acquistare 5 libri per un esame da 8 crediti, gli espedienti erano pochi e non sempre semplici. Uno di questi era trovare nel/la docente un/a complice, che in maniera ovviamente illegale faceva circolare i materiali necessari. Un altro modo, altrettanto illegale, era quello di trovare e scaricare la risorsa digitale sui vari siti che ritengono la produzione scientifica un bene da collettivizzare e rendere fruibile a chiunque, abolendo di fatto le barriere di accesso al sapere accademico. Un ultimo espediente, stavolta però rientrante nel lecito, era quello offerto dal Sistema Bibliotecario di Ateneo, che già da anni contempla la possibilità di prendere in prestito un e-book come un qualsiasi libro cartaceo attraverso un sistema di Digital Rights Management (DRM), il cui significato letterale è gestione dei diritti digitali (con tutte le problematicità e le contraddizioni del caso, ma in questo spazio non entreremo nel dettaglio della questione). Si accede a Sebina OPAC con le proprie credenziali, si trova la risorsa, la si scarica, e dopo un determinato numero di giorni il sistema riconosce quel file come “scaduto”, rendendolo illeggibile. Una misura che tende a tutelare, come è chiaro, il diritto d’autore. In un certo senso, è una misura di compromesso tra le case editrici (che in Italia scontano uno scetticismo endemico verso il digitale) e chi quelle risorse le vorrebbe in open access.
Già all’inizio del primo lockdown, in data 20 marzo, il Rettore si premurava di avvisare per mail la popolazione studentesca che “il nostro servizio bibliotecario ha ulteriormente ampliato le risorse bibliografiche consultabili da remoto, aggiungendo 180.000 nuovi e-book ai 400.000 già presenti, e tre nuove risorse bibliografiche di monografie scientifiche.” Insomma, il Magnifico Rettore aveva compreso che effettivamente c’era un problema, sbandierando in diverse occasioni quanto di buono e giusto stesse facendo l’università per salvaguardare il nostro diritto allo studio (e di conseguenza salvaguardare il loro diritto a non diminuirci le tasse nemmeno di un centesimo).
 Ma per chi come alcun* di noi si fosse trovat* nella situazione di cercare per un esame un libro edito da Bononia University Press, ovvero “la casa editrice dell’università di Bologna” (come si legge dal sito) potrebbe essersi imbattut* in una spiacevole sorpresa. Pochissimi sono infatti i volumi della BUP in formato e-book resi presenti nel sistema bibliotecario di ateneo, appena 41 su più 1200 complessivi, attraverso la piattaforma Locklizard. Ma come, ma l’università non si sta impegnando per garantire tutte le risorse digitali necessarie per studenti e studentesse? Potremmo anche sforzarci di capire la difficoltà a reperire risorse digitali da editori esterni, ma qui parliamo di un’emanazione diretta dell’università, che in teoria dovrebbe fare gli interessi della popolazione studentesca tutta, o no? Ma è qui che ci sbagliamo di grosso, perché la Bononia University Press è una società privata a partecipazione pubblica, una SRL per la precisione. Vale la pena riportare la breve storia della casa editrice così come è scritta sul loro sito:

La Bononia University Press nasce nel 1998 come un marchio editoriale dell’Università di Bologna. Per i primi anni e fino all’Ottobre 2003, viene gestita tramite personale di altre Aziende editoriali.
Fino ad allora infatti il personale di BUP contava un tirocinante e una segretaria e venivano pubblicati non più di due o tre titoli all’anno.
La sede era sita in un unico locale in via Zamboni 25.
Dalla fine del 2003, grazie ad un rinnovamento nella composizione dell’azionariato della società, la casa editrice riceve, insieme a nuovi obiettivi di crescita, anche un assetto più moderno ed efficace.
Nel giro di quattro anni il volume di affari è triplicato, il personale impiegato da BUP, a tempo indeterminato, è oggi di 11 persone.
Attualmente BUP pubblica circa 90 titoli all’anno ed ha un fatturato di circa un milione e mezzo di euro. La nuova e funzionale sede di via Foscolo 7 ospita le più recenti tecnologie informatiche ed è in grado di fornire il massimo del servizio ai nostri clienti.

Agisce quindi per l’interesse dei suoi azionisti, muovendosi sul libero mercato e trattando l’università di Bologna come un qualsiasi altro cliente. Ma chi detiene le quote di proprietà? In teoria dal punto di vista giuridico potrebbero infischiarsene e non farci sapere nulla, ma sul proprio sito la BUP si vanta di aver firmato un protocollo di legalità con Unibo, dove garantisce il rispetto di precisi codici di condotta e di trasparenza amministrativa, proprio come se fosse un ente pubblico. Possiamo dunque leggere da chi sia composta la compagine societaria:
 
        UNIVERSITA’ DI BOLOGNA 29,30%
        SACAEL GROUP 27,97%
        STEFANO MELLONI 15,22%
        FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI BOLOGNA 13,06%
        CASSA DI RISPARMIO DI RAVENNA 4,82%
        FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI IMOLA 4,82%
        FONDAZIONE DEL MONTE BOLOGNA E RAVENNA 4,82%
 
Sbirciando con più attenzione si notano subito una serie stravagante di incongruenze, visto che la compagine societaria riportata sul sito non è la stessa di quella presente sul protocollo di legalità. Sul sito viene citato il Bocchetti Group, sul protocollo invece Sacael Group. La fondazione Golinelli invece è presente sul sito, ma non sul protocollo di legalità. Saltano all’occhio le fondazioni di varie banche, ma anche e soprattutto la presenza di una holding, che sia la Bocchetti o la Sacael poco importa.
Il quadro che comincia a delinearsi è piuttosto confuso, per non dire inquietante, ma tendenzialmente in linea con gli sviluppi e i cambiamenti che stanno investendo tutto il mondo universitario da anni a questa parte: privatizzazione, aziendalizzazione, logiche del profitto. Nulla di nuovo sotto il sole, ma quanto sappiamo realmente di come l’università organizza i propri finanziamenti? I guadagni di queste società a parziale partecipazione pubblica vengono spesi nell’interesse della collettività o gonfiano i conti di qualche azienda? Tutto ciò ci riguarda per il semplice fatto che noi paghiamo una retta che ha continuato ad aumentare negli ultimi anni, retta che finanzia, seppur indirettamente, anche realtà sfuggenti e ambigue come la BUP, visto che l’università vi partecipa quasi al 30%.
Ambiguità confermata dal fatto che pur essendo previsto da questo fantomatico protocollo di legalità, sul sito non sia presente il curriculum di NESSUNO dei membri del consiglio di amministrazione (tra i quali spicca l’irriducibile Fabio Roversi Monaco, i cui incarichi istituzionali ormai non si contano più).
Possibile che non ci siano informazioni nemmeno sull’amministratore delegato dell’intera società?
Con tante perplessità ma anche con delle richieste precise alcune studentesse e studenti hanno deciso di fare una visita alla sede di questa casa editrice, ospitata da un edificio dell’università. Cosa hanno chiesto?

  1. Digitalizzazione significa anche accesso libero ed equo alle risorse digitali per lo studio: che la BUP metta a disposizione per il prestito il suo intero catalogo in formato e-book sul Sistema Bibliotecario di Ateneo e che aumenti le risorse in Open Access;
  2. L’amministrazione “trasparente” è una presa in giro: che la BUP pubblichi tutti i propri bilanci finanziari e i curricula dei consiglieri delegati o dica chiaramente che essendo una società privata non si sente in alcun modo vincolata a condividere queste informazioni con la comunità universitaria della quale si autoproclama rappresentativa.
     
    La visita ovviamente era totalmente inaspettata, alla sorpresa iniziale è subito seguito il biasimo per i modi poco ‘ortodossi’ di comportarsi. Inutile spiegare che alcun* di noi hanno fatto presente alcune questioni ai responsabili delle risorse digitali bibliotecarie già durante il primo lockdown, sentendosi rispondere con toni rassegnati “l’università deve trattare con la BUP come con qualsiasi altra casa editrice privata, con tutti i problemi che l’editoria italiana si porta dietro in termini di sfiducia verso il digitale”. Evidentemente un accordo serio ancora non è stato trovato. Studentesse e studenti erano lì proprio per spingere affinché finisse il balletto degli scaricabarile. Abbiamo chiesto di parlare con una figura dirigenziale, ma al telefono si presenta inizialmente la responsabile legale della società, che ancora una volta afferma che la BUP è una società privata, per cui noi non avevamo alcun diritto a essere lì né tantomeno ad avanzare richieste (figurarsi, loro possono prendere le nostre tasse ma noi non possiamo nemmeno avanzare dei dubbi sul loro modo di usarle). La ciliegina sulla torta è arrivata quando appena prima di riattaccare la responsabile ci minaccia avvisandoci che erano state allertate le forze dell’ordine, nonostante fossero stati loro a farci entrare.
    La seconda persona con la quale abbiamo avuto la possibilità di parlare è stata Stefano Melloni, ovvero l’amministratore delegato il cui CV non compare da nessuna parte. Il lungo ed estenuante confronto avuto (caratterizzato da toni paternalistici e a tratti insultanti) non si può riportare nella sua interezza, ci si limiterà ad alcune questioni principali.
    Davanti alla denuncia di ambiguità mantenuta dalla BUP nella sua essenza ibrida pubblica/privata ci è stato risposto che è in corso un processo di trasformazione in fondazione senza scopo di lucro, senza specificare esattamente quale ruolo però rivestirebbe l’università e le altre componenti societarie.
    Sul rendere disponibili le risorse digitali, la risposta è stata complessa e viziata probabilmente da un’incapacità dell’amministratore delegato di comprendere ciò che gli veniva chiesto. A suo dire, mettere a disposizione i libri in formato digitale sarebbe illegale perché violerebbe i contratti stipulati con gli autori, i quali non sempre hanno dato parere favorevole a rendere fruibili i loro libri online. Ciò non toglie che la BUP potrebbe e dovrebbe porsi il problema dell’accessibilità di queste risorse, visto che il suo catalogo è composto quasi solamente da pubblicazioni di carattere didattico/divulgativo per la stessa università di Bologna. Certo, non possiamo pretendere che violino la legge, ma sicuramente pretenderemmo maggiori attenzioni per chi acquista e legge questi libri piuttosto che per qualche autore geloso del proprio prodotto editoriale al punto di non volerlo far inserire nel sistema bibliotecario d’ateneo in formato digitale perché ‘rischioso’. Durante la telefonata più volte ci è stato rinfacciato con fare arrogante di “non sapere come funziona” o che le nostre richieste erano “sciocchezze o demagogia”. D’altronde è il modo con cui ogni adulto che ricopra una carica istituzionale si comporta nei confronti di giovani che provano ad esprimere un dissenso non mediato o edulcorato. Gli stessi adulti che però quando gli è stato fatto notare che di ‘trasparente’ la loro amministrazione aveva ben poco invitandoli a pubblicare i curricula sul sito hanno risposto “non sarà un problema”. A distanza di tempo stiamo ancora aspettando di sapere chi è codesto Stefano Melloni: non un solo CV è stato pubblicato sul loro sito. Rendendoci conto che non avremmo potuto ottenere molto altro, data la prolissità del nostro interlocutore, si è optato per andarcene (visto che siamo stat* trattat* al pari di criminali). Curioso che però sia l’amministratore delegato che uno dei lavoratori insistessero per “prendere un appuntamento e confrontarsi ancora su questi temi”. Curioso soprattutto perché non sembra che in questi anni o mesi ci sia stato tutto questo slancio al confronto con la parte studentesca, anzi. Forse allora questi modi poco ‘ortodossi’ a qualcosa servono. Sicuramente dovrà esserci la possibilità di un nuovo confronto, dato che le nostre richieste sono state ignorate o respinte. Le modalità saranno dettate dal modo migliore che la popolazione studentesca ha di farsi sentire, ovvero alzando la voce. Perché finora con e-mail garbate e parole concilianti ben poco è stato ottenuto.
    Il discorso su cosa sia effettivamente il sapere (o meglio, i saperi), chi lo detenga, sulla sua fruizione all’interno dell’università e su come esso venga riprodotto ovviamente non si limita alla BUP. In essa trova però un simbolo, un coacervo di contraddizioni che espongono inequivocabilmente i processi che stanno trasformando (in peggio) le nostre università. Lo potevamo osservare già ben prima della pandemia, nelle copisterie dove moltissim* di noi hanno recuperato le copie illegali dei testi d’esame per non dover sborsare centinaia di euro a sessione. Le uniche risposte istituzionali a questa situazione cronica e ben conosciuta sembrano essere da una parte un’accettazione silenziosa e deresponsabilizzante, dall’altra il pugno duro delle forze dell’ordine che compiono ciclicamente raid punitivi nelle copisterie, sequestrando il nostro sacrosanto diritto a studiare senza necessariamente dover gonfiare i portafogli di qualche barone ammanicato. La componente studentesca è chiamata a monitorare costantemente tutti i mutevoli processi che la interessano direttamente. Ci ha stancato la retorica autocelebrativa di un’istituzione la cui principale missione oramai è creare margini di profitto sulle nostre vite universitarie, piuttosto che condizioni migliori di studio e di apprendimento nei suoi spazi, fisici o virtuali che siano.