HAI PRENOTATO? Considerazioni sul problema delle aule studio oggi (e domani)

Hai prenotato?

Sì.

La tua prenotazione è stata cancellata 5 minuti fa, non c’è più posto, mi dispiace.

Hai prenotato?

Sì.

Come ti chiami? Non ti trovo… eccoti! Sei stata cancellata, saresti dovuta venire entro le 4, il tuo posto non c’è più, mi dispiace.

Hai prenotato?

Si.

Come ti chiami? Trovato, ma solo per la mattina, il pomeriggio non hai la prenotazione, è tutto pieno. Lì il QR code.

Hai prenotato? Sì. No, cancellato. Hai prenotato? Sì. Cancellato. Hai prenotato? Cancellato. Hai prenotato? Disinfettati le mani. Prenotato? No No Cancellato. Attesa. Prenotato? Disinfettato No Cancellato Prenota Prenota Attesa Cancellato Disinfettati le mani No QR Dentro non ci sono troppe persone Lista Disinfettante Mascherina Cancellato Undici e mezza Alza la mascherina. 

C’è posto? Magari… Guarda se qualcuno ha  cancellato. Non ho internet. Ha cancellato qualcuno? Un minuto fa no. Sto guardando da due ore: nessuno. Ah, un posto libero. Pigliato, grande, ancora un’ora per studiare… Domani ho l’esame… vado presto così prendo un posto.

Tutto pieno. 

Vado a casa, domani ho l’esame, è già tardi. A casa non mi concentro, troppo buio, distrazione. Domani ho l’esame, devo ancora leggere. Con chi ripeto? Preparo da sola. E le altre? Davanti al computer, da sole. Preparano l’esame? Boh. Lo darò? Dai, questa volta sì. Lo darò? Non so. Quale esame? Non mi ricordo.

Mi sentite? Mi sente qualcuno?

Sono qui, non sono invisibile.

Mi senti?

[IMPRESSIONI DALL’UNIVERSITA’ IN TEMPI DI PANDEMIA, dal podcast Costellazioni “32 anni di tagli, 1 di Covid. Università in subbuglio”, ep. 7]

 

Noi a questo gioco non vogliamo giocare

Ci risiamo. All’alba dell’inaugurazione di un nuovo anno accademico siamo ancora costrette a protestare per la mancanza di spazi per studiare. Nonostante quasi due anni siano ormai trascorsi dallo scoppio della pandemia, l’Università di Bologna non sembra ancora aver trovato una soluzione. Ne prendiamo atto ogni giorno, quando ci svegliamo e il buongiorno lo rivolgiamo ad Affluences, se non fosse che questa segna già piene quasi tutte le aule studio, e allora buongiorno una sega… Ogni-fottuto-giorno, ci troviamo di fronte allo stesso bivio: prenotare con tanto anticipo da rischiare di non presentarci in aula studio quando previsto (togliendo il posto ad altre), oppure prendere i libri, uscire di casa senza prenotazione e sperare di poter contare sulla buona volontà di chi gestisce gli ingressi, per occupare i posti lasciati vuoti da chi, avendo prenotato giorni prima, non si sia presentato? Il risultato in ogni caso ci fa male, ed è una caccia al posto che si gioca in un conflitto tra studenti. «Ma ci vuole tanto a prenotarsi il giorno prima? Ormai no che non puoi entrare». Noi a questo gioco non vogliamo giocare, perché se entro io rimarrà fuori qualcun’altra; non voglio entrare io: voglio che entriamo tutte! Voglio andare a studiare dove più mi piace, o dove mi porta il mio umore ogni giorno, perché si sa che i posti non sono tutti uguali. Sono mondi diversi, con persone diverse, l’aula studio di via Petroni e l’Archiginnasio, la Prometeo e la Biblioteca Universitaria, via Zamboni oppure Strada Maggiore o San Giovanni in Monte. Voglio andare dove sono le mie amiche, e se loro se ne vanno voglio poter cambiare e raggiungerne altre altrove. Voglio poter improvvisare. Voglio un’università in cui sguazzare, in cui stare larga ma a contatto con le persone a cui voglio bene o che trovo interessanti. Anzi, oggi no: voglio proprio cambiare perché con quelle amiche a dire la verità ci ho un po’ discusso. Potrei andare al Bigiavi, ma se poi incontro… Meglio di no, forse potrei andare al trentatre… ah cazz, è tutto pieno, peccato. Meno male che è rimasto un posto nella saletta computer del 36, però madonna che tristezza quella stanza, separata da tutto e con quella luce asettica che voglio morire. Forse per oggi è meglio se torno a casa, che questa vita non la affronto proprio. No, no, no e ancora no! Vaffanculo non ve la do questa soddisfazione: io voglio vivere, voglio lasciare che il sole mi ispiri e mi faccia deviare dalla biblioteca ai giardini, ma voglio anche che la pioggia non mi colga di sorpresa, e trovare sempre una porta aperta in università per andare in bagno, mettere in carica in telefono, per attaccarmi al Wi-Fi o per trascorrere cazzeggiando la mezz’ora che mi separa da un appuntamento. Non un numero di posti per un numero di studenti, ma possibilità di vita da accendere ogni giorno, di questo avrei voglia.

Neanche prima della pandemia si poteva fare, ma da allora la situazione è proprio invivibile. Dopo i primi mesi di lockdown l’università ha applicato un giro di vite sugli spazi che proprio non capisco. Già a maggio, con buona parte dell’Italia che riapriva, abbiamo avuto l’impressione che nelle aule studio e a lezione non fossimo desiderate. Era la “fase 2″​​​​​​​, quella in cui si diceva che avremmo dovuto imparare a “convivere con il virus” fino a quando la pandemia non sarebbe stata sconfitta. Si ricominciava a respirare sotto molti aspetti, materiali ed esistenziali, ma via via che il tempo passava abbiamo iniziato a capire in che modo l’Università aveva deciso di convivere con il virus per i mesi a venire. All’interno della scia delle riaperture, l’Unibo (leggi: le università in generale) è stata infatti l’ultima ad arrivare, mentre i servizi bibliotecari a giugno riprendevano a rilento. Assurdo, se si pensa a tutte le riaperture dello stesso periodo, che vedevano un’Italia tornare lentamente alla “normalità”. Con l’alibi dell’emergenza sanitaria, troppi pochi spazi sono stati riaperti, e comunque con orari ridotti: giugno e luglio sono stati mesi molto difficili per studiare, tuttavia si confidava ancora in una svolta con l’inizio del nuovo anno accademico.

Ad ottobre però la storia era la stessa. Anzi, a dispetto di un’organizzazione ormai affinata non si capiva quali logiche guidassero alcune scelte dei responsabili che operano all’interno dell’Università. L’Italia tutta in quei mesi era sballottata da una situazione epidemiologica dinamica e mutevole ed era quindi ovvio che, a seconda dei periodi e delle esigenze, le politiche adottate cambiassero di conseguenza. Qui però non si criticano le decisioni che hanno assecondato queste necessità, ma le scelte sbagliate rispetto ad una serie di alternative tutte possibili. Come mai, invece che disporre l’apertura in sicurezza di tutte le aule studio, si è optato per limitarne il numero disponibile? Questo, infatti, ha costretto gli studenti ad una caccia ai posti, ad assembramenti che hanno costituito un reale rischio sanitario – si pensi agli affollamenti in Palazzo Paleotti o nel complesso di San Giovanni in Monte, così come nelle sale studio di via Petroni o di Via Azzo Gardino e via dicendo. Già allora il sistema delle prenotazioni ci rendeva la vita difficile, dando spesso luogo alle situazioni paradossali e snervanti di cui sopra.

 

Zanolini e Scuderie, o come far finta di risolvere il problema degli spazi

Verso la metà di gennaio abbiamo iniziato ad organizzarci e ci siamo presentate a più riprese in Palazzo Poggi (Via Zamboni 33 – Sede del Rettorato). Era già troppo tardi per agire: le misure richieste sarebbero comunque state insufficienti verso chi ormai aveva fatto i salti mortali per non dover versare le tasse dell’anno nuovo, pagandone i costi in termini di salute, di qualità del proprio lavoro e quindi potenzialmente in termini di investimento sul proprio futuro di dottorande/lavoratrici. Dopo due settimane di mobilitazioni, la vittoria: 1) ci sarebbe stata la tanto agognata sessione straordinaria; 2) le aule studio di San Giovanni in Monte e la biblioteca di via Zamboni 38 sarebbero tornate a chiudere rispettivamente alle 19 e alle 18:30; 3) altre due aule studio sarebbero state aperte (Via Zanolini, all’interno di un punto ristoro e le Scuderie, bar convenzionato) per un totale di 136 posti; 4) altri sussidi a favore degli studenti sarebbero stati banditi. La sessione straordinaria aveva in realtà un sapore a dir poco amaro per il modo e i tempi in cui era arrivata, e le soluzioni per le aule studio tutta l’aria di un contentino. Altri sussidi per le studentesse e gli studenti invece non sarebbero arrivati mai. Dopo solo due settimane gli orari della struttura di San Giovanni in Monte tornavano ad essere anticipati alle 16 e i nuovi aumenti dei contagi portavano con sé nuove chiusure insensate (in aggiunta, si intende, a quelle sensate). E il bello doveva ancora arrivare.

Se stai leggendo questo articolo è molto probabile che tu stia studiando a Bologna, e di conseguenza ti sarai resa conto che nelle aule studio si continua troppo spesso anche quest’anno a non trovare posto, oppure lo si trova ma con un discreto livello di stress e difficoltà. Quello di cui potresti non esserti accorta, soprattutto se sei una matricola, è che tra i personaggi di questa barzelletta sono tornate a mancare le bar/mense/aule studio delle Scuderie (piazza Verdi) e della Veneta (via Zanolini), che nonostante la loro smartness non sono sopravvissute all’estate. Proprio così: ad agosto, mentre l’Università (libera e indipendente) assecondava le leggi statali introducendo il Green Pass persino per prendere i libri in prestito, si sollevava il polverone si-vax no-vax con l’incognita del numero di contagi in autunno e infine si spendevano quasi OTTOCENTOMILA EURO per rendere piazza Scaravilli inospitale alla sera, proprio allora, signore e signori, tornavano a chiudere i battenti quegli spazi, ora più che mai bollabili alla stregua di vere e proprie trovate pubblicitarie. Per noi rimanevano essenziali, ma come forme di governance delle proteste e come propaganda avevano certamente fatto il loro corso. E questo a maggior ragione se l’intenzione era quella di riutilizzare la stessa carta l’anno venturo, cioè questo. Fa molto male, infatti, leggere con quanto orgoglio oggi l’Unibo annunci la riapertura di questi stessi spazi quando non dovevano mai essere stati chiusi; fa ancora più male scoprire che agli annunci non sono seguite direttive precise verso le strutture, che quindi stanno prendendo tempo a situazione invariata. Noi nel frattempo siamo costrette a covare nuova rabbia, invece che semplicemente studiare e goderci la vita, universitaria e non. Questo fatto è emblematico della logica che guida le decisioni dell’Università, per la quale sia la pandemia che noi studentesse e studenti sembriamo essere solo delle variabili da gestire quando ciò che conta sono il bilancio, le statistiche, l’immagine, la spendibilità sul mercato, i parametri secondo cui l’ANVUR a fine anno dovrà decretare che di nuovo Bologna è sinonimo di eccellenza. Alla faccia delle università che rimangono fuori dai circuiti dei finanziamenti statali e dei capitali privati, perché in un paese “meritocratico” queste meritano solo di chiudere i battenti [Un link per approfondire].

 

Sedie scomparse e posti fantasma

Il 12 ottobre gli organi accademici hanno finalmente approvato il ritorno delle strutture a piena capienza: 100%, come prima del Covid. Ancora oggi, tuttavia, la maggior parte degli spazi non ha ancora ricevuto precise indicazioni in merito, per cui i posti a sedere continuano a essere pochi. Mentre scriviamo questo testo, per quanto ne sappiamo, solo le aule studio di Via Petroni e Berti Pichat hanno accolto la nuova disposizione. Ci auguriamo che, per quando sarà pubblicato, questo paragrafo sarà già vecchio, ma abbiamo poche speranze in merito. Questa decisione, peraltro, segue quella di due settimane prima (quasi un mese fa) relativa alla capienza totale nel corso delle lezioni. Come osservato da una bibliotecaria nei giorni scorsi, se davvero Unibo tiene alla nostra salute, è curioso che l’ordine sia stato proprio questo, dal momento che a lezione si sta spesso più stretti che nelle aule studio.
Se tu, lettrice, lasciassi oggi il tavolo della cucina e cercassi un posto libero in aula studio, vivresti con ogni probabilità una di queste due situazioni. La prima, senza dubbio la peggiore, è condividere il tavolo con qualche sagoma di Patrick Zaki: del reale interesse da parte di Unibo per la sua liberazione ci siamo già occupate. Questo finto interesse si esprime da troppo tempo attraverso queste sagome, che non sono mai state più che degli angoscianti segnaposto. La seconda, invece, è la partecipazione coatta al gioco “cerca la sedia”, che consiste letteralmente nel girare per l’edificio aguzzando la vista, pronte a fare la domanda giusta alla persona giusta, dal momento che i posti ci sono perché li vediamo ma manca un supporto sul quale appoggiare il culo. Alcune volte finisce bene, altre – la maggior parte – o non le troviamo o ci viene risposto che il numero delle sedie è fisso fino a quando l’aula studio non tornerà al 100% (ma non hanno approvato la delibera due settimane fa??).

Tuttavia, l’aspetto probabilmente più assurdo della vicenda è incarnato dall’app Affluences. Sono mesi ormai che conviviamo (o meglio: ci scontriamo) con questo strumento, e da qui derivano la consapevolezza e la necessità di spendere due parole in merito. Così a inizio anno Unibo lanciava questa grande innovazione: «da lunedì 15 febbraio prenotare un posto in biblioteca  o verificare se c’è spazio in sala studio diventa più facile, mediante l’app o il sito Affluences». Che prenotare sia più facile di un tempo, questo è fuor di dubbio, ma attenzione: solo perché prima la prenotazione non era necessaria! Oggi apriamo Affluences per prenotare domani e non c’è posto, dopodomani nemmeno. Tre giorni dopo sì, ma intanto ancora sul tavolo in cucina… Oppure ti organizzi per tempo, prenoti tutta una settimana anche se poi non ci vai ogni giorno. Ma il giorno stesso non puoi cancellare la prenotazione, per cui quel posto rimane occupato etc. etc.
Alcuni giorni fa ci siamo prese la briga di fare un giro panoramico del sistema bibliotecario di Ateneo. Volevamo capire se mancassero davvero gli spazi dove studiare, andando oltre la nostra esperienza personale. Presto detto, tutte le biblioteche dove siamo passate erano prenotate al 100% o quasi. Ma come sa bene chi ci legge, questo non significa che tutti i posti disponibili fossero occupati. La scarsità di spazi unita ad Affluences, infatti, dà vita a un circolo vizioso che potremmo così riassumere: ci sono pochi posti per studiare –> prenoto tutta una settimana –> non ci vado tutta la settimana ma i posti rimangono occupati –> i posti per studiare sono ancora di meno. In alcuni casi, la necessità della prenotazione va a dimezzare la capacità di biblioteche già dimezzate. Quando abbiamo parlato con il personale del Bigiavi alcuni giorni fa, verso le 16 c’erano 80 studentesse a fronte di 150 prenotazioni! Quest’ultima, sebbene rappresenti la situazione più assurda, non è un caso isolato. Allo stesso modo, infatti, i conti non tornavano in diverse altre biblioteche, come quelle di Lingue, Filosofia e Universitaria. Di fatto, studiare è diventato ancora più difficile perché l’app ostacola il libero accesso agli spazi. Chiedersi perché Affluences sia ancora tra noi, coesistendo con la lettura del Qr code e l’obbligo di Green Pass, non è una domanda scontata. La nostra idea è che contribuisca a fare dell’università un luogo in apparenza più tecnologico, innovativo, ordinato e organizzato, in una parola: smart. E dall’alto della sua smartness, può ripeterci ogni giorno che siamo noi a doverci adattare alle sue bizze, che siamo noi a dover rimodulare orari, ritmi, organizzazione della giornata. Non ce lo grida con la propaganda, ma ce lo soffia addosso con la strutturazione pratica di app e dispositivi simili.

In questo modo la nostra Università intende probabilmente farsi espressione, quando non avanguardia, dello “spirito del tempo”, incarnazione di un progresso malato che segue innanzitutto gli stimoli del mercato. Che questo immaginario differisca in modo evidente dalla realtà che noi studentesse viviamo tutti i giorni non sembra essere un problema.
Le bibliotecarie con cui abbiamo parlato condividono i nostri dubbi riguardo alla funzionalità dell’app, e questo non sorprende soprattutto se consideriamo che la gestione degli ingressi ha aumentato in maniera considerevole il loro carico di lavoro, ovviamente a parità di salario. In alcuni casi, e questo è interessante, alcune di loro hanno rimarcato l’esigenza di renderla più funzionale e flessibile. Noi invece su questo vorremmo essere chiare: Affluences è una merda ma non vi daremo alcun consiglio per migliorarla, perché questo strumento dà forma a un’idea di università radicalmente diversa dalla nostra, e ogni miglioramento avrebbe il solo effetto di rendere più sopportabile (e quindi subdolo) un meccanismo che è in nuce problematico ed escludente.

 

Rovistando in archivio: una non-scoperta

«Finalmente si torna alla normalità», ho pensato. Ma ora che ci ripenso, cosa significava studiare a Bologna prima della pandemia? Chi è arrivato negli ultimi due anni non può saperlo, e io, studentessa che si fa narrazione, che si fa storia e lotta studentesca, sono qui per mettervi in guardia. Lungi dall’essere stata una situazione piacevole, la normalità era costituita da aule studio-“pollaio” (già, come le classi delle scuole), in cui ci si accalcava e nelle quali capitava non di rado di dover stare coi gomiti stretti e con tutto il superfluo nello zaino, e questo quando si trovava posto. Se questa situazione poteva essere tutto sommato sopportabile nei periodi “di bassa”, diventava invivibile ogniqualvolta si avvicinava una sessione d’esami, proprio i periodi in cui di questi spazi avevamo maggior bisogno. Questa è la situazione che ci aspetta, ed è una situazione di merda. Forse vi riesce difficile da immaginare perché «cavolo, se siamo sopravvissute finora, con la capienza piena sarà la pacchia», e invece no, perché negli ultimi mesi siamo in molte a tornare a Bologna, sempre che riusciamo a trovare casa, e se tutto va bene questa tendenza sarà valida ancora per un bel po’. Non dimentichiamo poi tutti i posti che continueranno ad essere “mangiati” da Affluences! Qualcuna con una battuta già scherza sul fatto che «stai a vedere che toccherà rimpiangere la capienza al 50%…».
Non molto tempo fa un amico che sta facendo ricerche all’archivio dell’Istituto Parri, dove sono presenti molti materiali circa, tra le altre cose, vecchie proteste studentesche, mi ha inviato la foto di un volantino che poteva essere stato scritto oggi, e che recitava:

Data: 2 dicembre del 1991. Davvero dal ’91 non siamo mai riuscite a risolvere questi problemi? In trent’anni l’Università di Bologna non ha trovato i soldi per farci stare un po’ più larghe? E’ evidente che questo non rientri tra gli obiettivi dei dirigenti, perché realizzarlo implicherebbe mantenere anche spazi che rimangano mezzi vuoti per ore durante la giornata, ad esempio vicino agli orari di apertura e di chiusura, oppure nei mesi “di bassa”, come dicevamo. Questo da parte della nostra Università è evidentemente percepito come uno spreco: soldi tolti ad investimenti che permettano di mantenere la vetta delle classifiche. Purtroppo, neanche i nuovi progetti di recente inaugurazione o ancora in cantiere invertiranno questa tendenza, perché a guidarli è sempre la stessa logica, alla ricerca del “giusto” mezzo tra darci qualcosa ma mai tutto quello che ci sarebbe necessario per stare bene. Tenute “a risparmio energetico”, in un limbo “sufficiente” per laurearci ma incapace di sbocciare nella vita vera, gratificante, stimolante e inclusiva. Questo ci aspetta, e non lo diciamo “per partito preso”, ma per esperienza e perché ce lo insegna la storia, la stessa storia che vi piace farci studiare, ma che reprimete quando vi si ritorce contro, la storia delle Larissa che ci hanno preceduto. Non è con gli spot pubblicitari o con qualche concessione che cambierà l’Università, ma con una presa di coscienza profonda e una lotta martellante adesso, in anticipo, che vada oltre le loro aspettative, perché stavolta ci siamo e non ci accontenteremo delle briciole.

Basta coi “risultati”. Riflessione su un anno accademico in situazione emergenziale

È passato ormai un anno dall’inizio della situazione emergenziale causata dalla pandemia, ed è difficile provare a sintetizzare quale è stata ed è tuttora la nostra condizione di studenti e studentesse in semplici parole. La forza di volontà che spinge le nostre menti a provarci è frutto di dissensi accumulati e repressi, che sono stati finora affrontati con troppa passività.

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